“The long road” Esperienze e riflessioni sulle periferie degli Stati Uniti.

La redazione di infoafro, alla luce della situazione negli Stati Uniti a seguito del brutale omicidio di George Floyd, mi ha contattato per riportare le mie riflessioni e raccontare la mia esperienza negli Stati Uniti, girando un film, The Long Road to the Hall of Fame (2015), che ha per protagonista un afroamericano e il suo complesso percorso di vita, tra discriminazione, volontà di successo, ostacoli, conversioni e movimenti di lotta degli anni che ha attraversato.

Mi chiedeva, inoltre, di provare a riflettere su come sia cambiata la società americana dai tempi della segregazione ad oggi. Ho immediatamente pensato che è stata proprio questa domanda a spingermi, nel 2009, a cominciare questo progetto filmico e ad arrivare nei suburbi delle periferie del “primo mondo”: il paese dei numeri, dei cataloghi, delle mille discipline, della concorrenza e del sogno di realizzazione individuale. Un lungo viaggio che è partito dalla mia città natale, Casablanca, di cui un certo Malcom X scriveva nella sua autobiografia (co-scritta con Alex Huley), pubblicata nel 1964: «Da Dakar andai in volo fino al Marocco […] Visitai la famosa Casbah, il ghetto che era stato costituito quando i francesi che dominavano il paese si erano rifiutati di permettere agli abitanti dalla pelle bruna di abitare in certe zone della città di Casablanca. Migliaia e migliaia di indigeni soggiogati furono ammassati nel ghetto allo stesso modo in cui, a New York City, Harlem divenne la Casbah dell’America».

credit photo: Andrea Hanktattoo Leo

In quell’anno, ancora adolescente, ascoltavo già tanta musica americana nera, tra funk e hip hop. Le copertine dei Public Enemy e i loro videoclip erano manifesti politici, eppure non capivo la visione americana di un Thomas Jefferson o di un Abraham Lincoln che consideravano, molto prima della Nation of Islam (NOI) o di altri “movimenti neri radicali”, la necessità della “separazione tra le ‘razze’”. Una delle problematiche che dovevo affrontare, nel portare avanti l’avventura del film, era proprio quella relativa alla conversione del protagonista alla controversa e discussa organizzazione della Nation of Islam (con la sua lunga e complessa storia di sincretismo tra cristianesimo, islam messianico e analisi pragmatica marxista, resa ancor più ambigua dalle vicende legate alla morte di Malcom X). Infatti il protagonista, Tony King, nato in una famiglia cristiana e in un ghetto dell’Ohio, si converte all’Islam all’apice della sua carriera hollywoodiana, adottando uno dei nomi più pericolosi negli Stati Uniti: Farrakhan (cognome dell’attuale leader della Nation).

Un’altra grande difficoltà per me è stata fare i conti con lo slang e l’uso continuo del termine “razza” (race) nel linguaggio parlato: una parola che non è altrettanto usata nell’italiano, in cui ha un immediato significato razzista. Questo aspetto è stato un altro importante motivo di riflessione su quanto il linguaggio rispecchi e testimoni la violenza di una società ancora profondamente divisa.

Infatti, la società americana è reduce di un disastro tramandato dall’epoca delle leggi razziali Jim Crow, ufficialmente dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema solo nel 1965. Ma, un conto è abolire la legge, un altro è educare e cambiare la mentalità di bianchi formattati all’odio e alla supremazia da una parte e di neri costretti all’ignoranza e ai tanti traumi dall’altra. Questa radicale trasformazione non può avvenire se si continua ad alimentare lo stesso immaginario globale colonialista con potenti mezzi di comunicazione, in primis il cinema e la tv.

Il cinema è stato, infatti, un efficacissimo mezzo di controllo e di alienazione, di segregazione e di sostegno al colonialismo ed ha aiutato la Casa Bianca a scrivere una genesi della giovanissima America grazie al film The birth of a nation (presentato in anteprima proprio alla Casa Blanca nel 1915), apologia dei suprematisti del Ku Klux Klan, raffigurati come salvatori contro i negri stupratori. Ma negli anni ’60, con la “democratizzazione” della telecamera 16mm, i registi neri hanno iniziato davvero a sviluppare il “loro cinema”. Tanti hanno peccato di imitazione dei “films di azione bianchi”; per questa ragione questo genere di film fu chiamato dalla critica bianca “Blaxploitation”: i cattivi erano i bianchi e i neri, finalmente eroi protagonisti, sfidavano i mafiosi italiani. Questa “scuola di cinema” ha aperto la strada a Spike Lee, qualche decennio dopo.

Il mio amico Tony King (prima di diventare Malik Farrakhan) era attore nei maggiori film dell’epoca. Era addirittura l’unico nero con una battuta nel film Il Padrino (F. F. Coppola, 1971). Nel film racconta la discriminazione che subivano gli attori neri – “A forza di chiamarci negri, pensavamo che era il nostro vero nome” – e l’atmosfera di razzismo che svela anche, negli stessi anni (1973), un coraggioso Marlon Brando nel rifiutare l’oscar di migliore attore, mandando al suo posto l’attrice e attivista amerindiana (Sacheen Littlefeather) a leggere una missiva contro la supremazia bianca nella potente industria cinematografica hollywoodiana. Oltre a queste discriminazioni razziali, Malik deve subirne altre, decidendo di adottare il cognome del principale leader della NOI e rinunciando quindi automaticamente alla sua carriera.

Ghetto e Black Muslims

È stata la tematica del “ghetto”, la medina/casbah che Malcom X paragona ad Harlem, che mi ha spinto ad andare a vedere con i miei propri occhi la condizione di vita di una serie di persone che sono poi diventate parte del film: artisti, tecnici, lavoratori della cultura e dello spettacolo, padri e madri. Malik era infatti diventato il capo della sicurezza dello storico gruppo Public Enemy, la band radicale che sceglieva le foto dei linciaggi dei neri (con le famiglie bianche sorridenti ed esaltate!) come copertina degli album negli anni ’80 e che faceva dei videoclip per denunciare il suprematismo bianco, citando le parole del “profeta nero” Louis Farrakhan e sostenendo la Million March su Washington nel 1995. Una band che ha creato gli S1W (security of the first world), metafora dei gruppi di autodifesa neri che si richiamavano alle Black Panthers e ai drills dei FOI (fruits of islam), e appendeva dei pupazzi dei KKK sui mega palchi degli Stati razzisti come protesta contro le leggi razziali.

Il ghetto di South Los Angeles, dove sono stato ospite di Malik, si trova tra Leimert Park e il quartiere Watts, tristemente famoso per le rivolte del 1965 e del 1992 scatenate dalla stessa recente brutalità poliziesca e “violenza razziale”. Negli anni ’50, ’60 e ’70 era indubbiamente un specia di “Mecca culturale nera” della west coast. Nel film vediamo immagini di questo quartiere nelle sequenze della celebrazione del Juneteenth ovvero della “festa della dichiarazione dell’abolizione della schiavitù del 1865”. Un quartiere che abbiamo raccontato tramite una canzone della colonna sonora (Leimert Park) che restituisce la sua energia: murales di manifesti Black Panthers “To protect & serve”, che dettano programmi educativi e denunciano le violenze poliziesche, una libreria nera, il teatro, il “black hall of fame” con la stella di “Charles Mingus” e altri grandi artisti neri che non hanno posto sull’Hollywood Boulevard.

Ma nel “ghetto” (per fortuna) non si arriva da stranieri (o turisti) e non si gira da soli con la propria telecamera. Solo grazie a Malik, infatti, sono riuscito a conoscere il quartiere, ad entrare nella moschea 27 della Nation of Islam, molto diversa da quelle che conosco del Medio Oriente e del Nord Africa, e a intervistare i suoi fedeli. I membri della Nation hanno, o almeno avevano, un importante ruolo nell’arginare i conflitti tra le varie gangs che dividono quartieri volutamente abbandonati dallo Stato.

Oltre alla Nation, molte altre figure hanno avuto il ruolo di tracciare direzioni di lotta. Per esempio, quella di “Dottor King” e di Malcom X, accumunate dallo stesso tragico destino. Quest’ultimo in particolare era convinto, almeno fino alla rottura con la NOI, che la separazione e l’indipendenza economica, territoriale e culturale fossero l’unica soluzione, iniziando la riscrittura della storia dal punto di vista degli oppressi. Non basta il “black history month”, cioè il mese di febbraio che dal 1970 è dedicato alla celebrazione dei pionieri della cultura afroamericana e delle “solite” icone del passato: Harriet Tubman, Frederick Douglass. Queste celebrazioni esprimono più a un senso di colpa istituzionale che si traduce in una spettacolarizzazione e folklorizzazione tipica dell’industria dello spettacolo americana. Anche l’inaugurazione del Museo nationale della storia e della cultura afroamericana a Washington, nel 2016, va in questa direzione, mentre gli afroamericani soffrono ancora traumi, emarginazioni strutturali e povertà. Infatti, tanti giovani afroamericani si arruolano nell’esercito più perchè non hanno alternative lavorative che per orgoglio patriottico. I casi di boicottaggio del servizio militare, come quello storico di Muhammad Aliche preferì disobbedire e finire in carcere invece che sparare “su una persona che non mi ha fatto nulla e non mi ha mai chiamato negro”, oggi sono rari, nonostante la conoscenza delle condizioni passate. Infatti, nella seconda guerra mondiale, tantissimi afroamericani vennero, sì, a “liberare l’Europa” ma restarono segregati dentro lo stesso esercito (come i tanti africani nell’esercito francese durante la prima e la seconda guerra mondiale).

Oltre alla precarietà e alla povertà economiche, l’altro grande disastro è quello rappresentato dall’accesso al sapere e dalla mancanza di ampi investimenti in un’industria culturale alternativa a quella rappresentata dall’estetica hollywoodiana e dai suoi modelli di riferimento bianchi che hanno spinto i neri ad odiare se stessi.

Nella poesia “A qui la faute?” (di chi è la colpa) di Victor Hugo, il personaggio, in modi inquisitori, chiede a un giovane in collera perché ha bruciato una biblioteca. Lanciandosi in un lungo elogio del libro, dell’importanza della scienza per lo spirito umano e poi della libertà, e citando autori classici, il giovane gli risponde: “perché non so leggere!”.

 Réda Zine: attivista, artista, e regista.

 twitter e instagram : @afnorock

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